Notizie da leggere? No, da vedere. E da toccare

Lo confermano diversi studi: per molti cittadini informarsi sta diventando un’attività residuale. Diminuiscono le ore dedicate in media alla lettura delle news, ma soprattutto cala la qualità di quel tempo. E’ raro ormai, se non nel fine settimana, che il lettore sieda in poltrona per sfogliare il suo giornale. Le notizie oggi si leggono nei momenti morti, sul tablet in metropolitana o sullo smartphone mentre si beve il cappuccino. E nel futuro sarà sempre di più così.

Per questo giornali e riviste stanno cercando modi più diretti ed intuitivi per trasmettere i propri contenuti al lettore. Uno di questi è l’infografica, la tecnica che si occupa di organizzare e rappresentare in veste grafica le informazioni. Strumento applicato in primo luogo ai dati numerici, che se riportati in un articolo ne rendono pesante la lettura, ma valido per ogni tipo di notizia. Anche le più complicate.  Dimostrano i creativi di Beautiful LAB, progetto di successo targato Sky, capaci di raccontare in pochi minuti 20 anni di centro-sinistra italiano.

La ricerca di forme alternative di scrittura, o alternative alla scrittura, non è una novità. Al contrario, i primi esempi di infografica sono più vecchi delle lettere, vecchi quanto le prime mappe disegnate dall’uomo. Ma negli ultimi anni, grazie alla crescente varietà di supporti informativi, sta conoscendo un boom. Molti quotidiani fanno un uso massiccio di

L'infografica mostra la dieta mediatica media di un cittadino americano.

infografiche che insieme alle foto stanno sempre più intaccando il primato del testo. Naturale conseguenza del passaggio al full colour. Certo, i giornali italiani si muovono ancora una volta con colpevole ritardo. Il caso del Sole 24 Ore è emblematico: una testata che potrebbe acquisire appeal presentando i suoi dati in modo più stimolante, ma che sembra conoscere solo le squallide tabelle Excel.

Per i quotidiani la carta è senza dubbio un limite. Materiale, perché la sua pessima qualità limita le potenzialità del colore. E strutturale, perché la pagina ha una costruzione molto rigida, legata ad un preciso percorso di lettura: dall’alto verso il basso e da sinistra a destra. Quello che l’occhio segue nell’affrontare ogni pagina scritta. I magazine ne sono un po’ meno vincolati, possono quindi sperimentare.  Uno su tutti Wired, le cui infografiche sono spesso dei piccoli capolavori.

La vera rivoluzione viene però dai nuovi supporti. Quelli non cartacei, bensì dotati di schermo. Ivan Illich, vero genio, lo aveva intuito un po’ di tempo fa:

Oggi il libro non è più la metafora fondamentale dell’epoca; il suo posto è stato preso dallo schermo. E’ il momento ideale per coltivare una molteplicità di approcci alla pagina che sotto il monopolio della lettura scolastica non sono potuti fiorire.

Nella vigna del testo, 1991. Profetico: vent’anni dopo i tablet permettono di proporre infografiche interattive in cui il lettore naviga attraverso i dati secondo i suoi interessi. Sempre che gli editori abbiano il coraggio di sperimentare. Non è il caso dell’applicazione per iPad del Corriere. Che oltre al testo prevede foto e video, magari usati insieme per raccontare una storia, ma nulla di più.

Un caso virtuoso però in Italia c’è. E’ lavitanòva, la versione per iPad di Nòva, l’inserto di tecnologia del Sole. Lo stesso che nel formato cartaceo non va oltre i grafici di Excel. Onore quindi a Luca De Biase, direttore del dorso, e a Gianni Riotta, di cui tutto si può dire, ma non che sminuisca l’importanza del digitale.

Un modo completamente diverso di leggere le notizie. Ammesso che la parola leggere abbia ancora senso, perché qui le informazioni si vedono, si ascoltano, si leggono e si toccano. Con un approccio interattivo e plurisensoriale. Capace, per la gioia dei pubblicitari, di coinvolgere il lettore in maniera molto più profonda.

Per questo nel mondo dell’infografica ogni giorno assistiamo a nuovi esperimenti. Come quello realizzato da Hans Rosling, medico e statistico svedese, sviluppatore di gapminder, un software per la visualizzazione delle statistiche acquistato nel 2007 da Google. Si tratta di una video-infografica andata in onda lo scorso dicembre su The Joy of Stats, programma di BBC Four. British Broadcasting Corporation, cioè il servizio pubblico inglese. Noi lo guardiamo da lontano, un po’ ammirati. Quanto a infografiche, siamo fermi ai plastici di Bruno Vespa.

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The Daily, la nuova scommessa di Rupert Murdoch

Jemima Kiss, giornalista del Guardian esperta di tecnologia, dà un’occhiata a The Daily, il primo quotidiano progettato solo per iPad. Frutto di una stretta collaborazione tra Newscorp ed Apple, Rupert Murdoch lo ha presentato mercoledì 3 febbraio al Guggenheim Museum di New York. L’abbonamento costerà 99 centesimi a settimana o 40 dollari all’anno.

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Google scende a patti con l’Antitrust. Ma agli editori italiani fa comunque paura

Nei primi tempi di Google c’era una tradizione, il TGIF, Thank’s God it’s Friday. Ogni venerdì i dipendenti, fondatori compresi, si ritrovavano in una stanza a bere birra, mangiare patatine e discutere. Pare che il motto di Google, Don’t be evil, sia nato durante una di queste riunioni. Non essere malvagi, un’intuizione di Paul Buchheit, lo sviluppatore di Gmail. Geniale, perché condensava in una formula tutto l’idealismo della giovane azienda, la volontà di agire sempre nell’interesse degli utenti. Lo stesso principio per cui Lerry Page e Sergey Brin rifiutarono per molti mesi di inserire pubblicità sul loro motore di ricerca, temendo che diventasse meno intuitivo.

Lerry Page (37, a sinistra) e Sergey Brin (37, a destra) hanno lanciato Google nel 1997. Al centro Eric Schmidt (55) CEO della società, che ad aprile lascerà l'incarico proprio a Page.

Da quei giorni molte cose sono cambiate. I dipendenti oggi sono 24.400, in una sola stanza non entrano più. Gran parte delle ricerche mondiali passa attraverso Google, il 66% negli Stati Uniti, più dell’80% in Europa, dove la concorrenza è minore. Infine, nel business della pubblicità Brin e Page ci sono entrati. E con profitto: dei 29,3 milioni di dollari fatturati dalla società nel 2010 la quasi totalità viene dalla vendita di spazi pubblicitari, sui propri siti – compreso Youtube – o su quelli dei partner commerciali.

Il successo di Google è frutto di intuizioni geniali – tra cui la celebre coda lunga – applicate con tecnologie all’avanguardia. E vantaggiose per gli utenti, perché capaci di far incontrare domanda e offerta di spazi pubblicitari. Dominio meritato dunque, ma pur sempre dominio. L’impegno a non essere malvagi non basta più a rassicurare chi, come i giornali, tenta di trarre profitti dalla rete, vendendo contenuti e/o attirando inserzionisti. Da molto tempo in Italia la raccolta pubblicitaria su carta stampata è in flessione. Cresce solo quella online, +19% nel 2010. Ma in quel territorio vige la legge di Mountain View.

Antonio Catricalà (58) è presidente dell'Antitrust dal 2005.

E’ toccato all’Agcm, Autorità garante della concorrenza, metterla in discussione. Il 26 agosto 2009 su segnalazione degli editori italiani l’autorità presieduta da Antonio Catricalà istituisce un’istruttoria su Google per abuso di posizione dominante. Nel suo mirino finiscono due servizi. Il primo è News, motore di ricerca dedicato alle notizie. Quando su News cerco Barack Obama ottengo un elenco di titoli, ritagli di articoli – i cosiddetti snippets – ed immagini sul presidente americano, pubblicati online dai giornali affiliati al programma. Ogni titolo contiene il link al sito dell’editore che può così attirare traffico, quindi pubblicità. Nulla di obbligatorio: ogni testata può decidere di togliere i propri articoli dal database. Ma se lo fa, rileva l’authority, questi vengono esclusi in automatico anche da Search, il motore di ricerca generico. Diventando di fatto invisibili per tutti gli utenti che esplorano la rete da Google, in Italia circa il 90%.

Secondo oggetto di indagine è AdSense, il servizio che media tra proprietari di siti e inserzionisti. Per la pubblicità Google segue un principio molto semplice: far sì che essa appaia a chi ha più probabilità di esserne interessato. Strumento base di questa strategia è AdWords, una piattaforma su cui si svolge un’asta di parole chiave. Se un inserzionista la vince vedrà il proprio annuncio comparire vicino ai risultati delle ricerche contenenti quei termini. Così chi possiede un’agenzia di viaggi punterà su parole come vacanza o crociera, sapendo che chi le ricerca potrà essere sensibile alle sue offerte. Attraverso AdWords Google vende gli spazi pubblicitari sui siti di sua proprietà, attività da cui trae circa 2/3 dei ricavi complessivi.

AdSense serve invece a mettere in contatto gli inserzionisti con siti terzi. Affiliandosi al programma corriere.it come l’ultimo dei blogger accettano di inserire sulle proprie pagine gli annunci pubblicitari degli inserzionisti AdWords. Possono decidere di mettere una vera e propria barra di ricerca sull’homepage (AdSense for search), o di ritagliarvi qualche spazio per finestre pubblicitarie (AdSense for content). Google fa poi in modo che l’annuncio di ogni prodotto appaia su un sito di ambito affine. Per esempio quello di un mobilificio su un blog dedicato all’arredamento. Il pagamento scatta solo se l’utente clicca sul link pubblicitario. In questo caso Google spartisce il ricavato con il proprietario del sito, che può così monetizzare i contenuti. Gli inserzionisti hanno buona probabilità di intercettare utenti sensibili ai loro prodotti. Gli utenti di visualizzare annunci di loro interesse.

Insomma, AdWords e AdSesnse mettono d’accordo tutti. O quasi. Perché anche qui l’Autority ipotizza un abuso di posizione dominante. Gran parte degli accordi AdSense sono sottoscritti dagli editori direttamente in rete. Per questi “affiliati online” l’articolo 12.1 del contratto prevede che:

«La quota dei ricavi che Lei riceverà sarà determinata da Google di volta in volta a sua assoluta discrezione. Lei prende atto che Google non avrà e non ha alcun obbligo di comunicarle come tale quota viene calcolata o quale percentuale del totale dei ricavi di Google sugli annunci pubblicitari (…) visualizzati sulla/e Sua/e proprietà la sua quota rappresenta. I pagamenti saranno calcolati esclusivamente sulla base dei registri tenuti da Google».

Totale arbitrarietà, nessuna trasparenza. Oggi, proprio grazie all’indagine dell’autorità, conosciamo le percentuali di ripartizione dei ricavi. Sono 49% a Google e 51% al partner per AdSense for search e 32-68 per AdSense for content. Google le ha modificate solo una volta da quando il servizio esiste. A suo svantaggio. Ma è il principio che conta e per Catricalà quello espresso nell’articolo 12.1 non è accettabile.

Con i grandi editori Google stipula invece contratti cartacei nei quali la divisione dei ricavi è esplicitata. Neppure questi affiliati diretti possono però verificare che quanto è loro corrisposto dalla società di Mountain View sia la somma esatta. Gli è vietato infatti il click tracking, cioè monitorare autonomamente il numero di click degli utenti sugli annunci contenuti nelle loro pagine.

Un'immagine del Googleplex, il quartier generale di Google a Mountain View. Secondo la rivista Fortune è il quarto miglior posto in cui lavorare nel mondo.

 

L’istruttoria dell’Antitrust si è chiusa il 17 ottobre scorso. Senza alcuna sanzione, perché, ed è questa la notizia, Google ha scelto la via del compromesso: una serie di impegni che il garante ha ritenuto sufficienti ad eliminare ogni distorsione della concorrenza. Il primo è arrivato ad indagine appena iniziata. Nel dicembre 2009 Google ha deciso di separare il crawler che analizza i contenuti News da quello della ricerca generale. Gli editori saranno così liberi di decidere quali articoli rendere disponibili, quali limitare o quali togliere del tutto, avendo comunque la garanzia che rimangano visibili su Search. Capitolo AdSense. Per gli affilati online Google si è impegnata a rendere pubbliche le percentuali e a non modificarle prima di averne dato notizia sull’interfaccia online del programma. Agli affiliati diretti permetterà infine di verificare la congruità delle somme ricevute attraverso il click tracking. All’articolo 4.1 del loro contratto:

«Company will not, and will not knowingly or negligently allow any third party to implement any click tracking or other monitoring of result (La società non permette (…) a parti terze di predisporre il click tracking o altri tipi di monitoraggio del risultato)»;

sarà aggiunta la seguente frase:

«except in accordance with the applicable and procedural requirements notified by Google (se non in accordo con i requisiti procedurali notificati da Google)».

Tutti gli impegni hanno durata di tre anni. Gli editori li avrebbero voluti definitivi, ma l’autorità ha giudicato il lasso temporale adeguato, considerando la velocità a cui si evolve il mercato online.

Così, da gennaio 2011, Google sembra di nuovo (un po’) meno malvagia. Gli accordi con l’Agcm sono frutto di un atteggiamento molto collaborativo. Effetto forse della serie di procedimenti di indagine che, proprio per la sua posizione dominante sul mercato, la società di Brin e Page sta affrontando in vari paesi europei. L’ultimo a Bruxelles, dove l’Antitrust comunitario la sospetta di aver penalizzato i suoi concorrenti nei risultati del motore di ricerca. Il rischio è una multa pari al 10% del suo fatturato, ben superiore a quella – già enorme – toccata a Microsoft nel 2008. Ma un rischio ancora più grande per Google è quello di vedere intaccata la reputazione di affidabilità. La risorsa su cui – fin dai tempi del TGIF – ha costruito gran parte del suo successo. Forse per questo il legale della società Mario Siragusa ha sottolineato che gli impegni presi con l’Agcm saranno applicati in tutto il mondo. Che ciò nasca dall’iniziativa di un autorità italiana è motivo di soddisfazione. Pochi mesi dopo una disperante puntata di Report sul tema, la prova che le authority possono funzionare anche nel nostro Paese.

Il presidente della Fieg, Federazione italiana editori di giornali, Carlo Malinconico Castriota Scanderbeg

La soddisfazione della Fieg è invece contenuta. Nel loro appello a Catricalà gli editori avevano infatti sollevato anche un altro tema: la difesa dei diritti d’autore online. Denunciando che, con i suoi motori di ricerca, Google ricava valore dai loro contenuti commerciali, senza corrispondere alcuna forma di compenso. Questo aspetto, forse il più interessante nel rapporto tra i giornali e il motore di ricerca, è rimasto sullo sfondo dell’istruttoria. L’Antitrust non l’ha affrontato perché non di sua competenza. Il dossier sui diritti d’autore è affare dell’AgCom, l’Agenzia garante per le Comunicazioni, che proprio in questi giorni ha messo in consultazione pubblica la bozza di una nuova normativa.

Vedremo come andrà a finire. Una cosa però è certa: gli editori sbagliano se pensano che saranno le authority a salvarli. Se i loro contenuti in rete non sono valorizzati gran parte della responsabilità è loro. In primo luogo per averli resi tutti disponibili gratuitamente. Abbassandone così il valore agli occhi dei lettori, fino a renderli una commodity. Non capendo, Rupert Murdoch unica eccezione, che la pubblicità online, per quanto in crescita, non basta da sola a far sopravvivere un giornale. Ora molti fanno marcia indietro. Ma per competere con colossi come Google bisogna fare squadra, creando ad esempio piattaforme comuni di vendita online. Progetti che in Italia sembrano ancora molto distanti.

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La fin du “Monde”?

C’era una volta Le Monde, isola felice della carta stampata. Un quotidiano indipendente, perché posseduto dell’insieme dei suoi redattori, la Société des rédacteurs du Monde (Srm). C’era una volta. Perché qualche settimana fa, il 2 novembre, la favola dei giornalisti-editori è finita: con una somma poco superiore ai 100 milioni di euro, la cordata di investitori composta da Pierre Bergé, Xavier Niel e Mathieu Pigasse ha assunto il controllo della più prestigiosa testata francese.

Colpa di difficoltà economiche ormai croniche che hanno costretto i redattori a passare la mano. Dieci bilanci consecutivi in rosso, perdite cumulate per 200 milioni di euro, costante calo di vendite e crollo degli introiti pubblicitari. Malattia comune a molti quotidiani, ma nel caso di Le Monde aggravata da una strategia societaria fallimentare. All’inizio dello scorso decennio, mentre l’economia mondiale subisce lo shock degli attentati alle Torri Gemelle, il gruppo Le Monde SA si lancia in una serie di acquisizioni. Le Courrier International e Télérama, uno shopping di prestigio, ma che richiede liquidità e provoca indebitamento. Un primo fardello sono i 69 milioni di euro di obbligazioni emessi tra il 2002 e il 2003, poi convertiti in azioni. Proprio mentre l’affitto della nuova sede – all’80 di boulevard Auguste Blanqui – appesantisce ulteriormente il bilancio. Nel 2005 è necessaria una prima ricapitalizzazione: sale la partecipazione nel gruppo di due colossi dell’editoria, il francese Lagardère (17,27%) e lo spagnolo Prisa (15%), editore del Pais. I redattori conservano il controllo, ma il passaggio di mano è solo rimandato. Nonostante i tagli imposti dalla nuova dirigenza Fottorino-Guiraud, 130 licenziamenti, tra cui 70 giornalisti, e razionalizzazione delle sedi, nel 2009 c’è bisogno di un nuovo prestito. 25 milioni di euro che accorda Bnp-Paribas, a condizione però che la società attui un ulteriore aumento di capitale. Quello decisivo per il cambio di proprietà.

La sede parigina di Le Monde. Ristrutturata dall'architetto Christian de Portzamparc, è stata inaugurata nel 2004

Nei primi mesi del 2010 si fanno avanti due cordate di imprenditori. Una composta da Nouvel Observateur e France Télécom, l’altra dal trio Bergé, Niel e Pigasse. Abbreviati, ai francesi piace, in BNP. Proprio come la banca, ironia del destino. Durante l’estate la battaglia tra i due gruppi infuria. Pur con bilanci in profondo rosso e poco più di 300 mila copie vendute, Le Monde rimane il quotidiano di riferimento dell’intellighenzia francese e un opinion maker decisivo in vista delle imminenti elezioni presidenziali. Così il 9 giugno Nicolas Sarkozy convoca all’Eliseo Eric Fottorino, direttore del giornale e presidente del direttorio, esprimendogli avversione per BNP, a suo avviso troppo sbilanciati a sinistra. Quindi lo ricatta: se saranno loro a spuntarla, lo Stato non verserà i 20 milioni di euro necessari al salvataggio della stamperia del gruppo. Ingerenze come questa (in Francia) fanno scalpore. Di più se arrivano da un presidente più volte accusato di nutrire ambizioni di controllo sui media. Le Monde, minacciato nell’indipendenza, suo valore simbolo, reagisce con parole e fatti. La società dei redattori, che ha l’ultima parola sull’operazione, si pronuncia con forza (90,84%) a favore di Bergé, Niel e Pigasse.

I nuovi proprietari del gruppo Le Monde SA: (da sinistra) Mathieu Pigasse (42), Pierre Bergé (80) e Xavier Niel (43)

30 milioni di euro per l’aumento di capitale, 32 per rimpolpare il bilancio corrente e 35 per riacquistare, alla metà del loro valore originario, le azioni emesse tra il 2002 e il 2003: l’investimento totale di BNP è di 100 milioni di euro. Una somma con cui il loro gruppo, Le Monde Libre (Lml), acquisisce il 64% di Le Monde SA. I redattori cedono così la maggioranza, ma uniti alla società del personale e a quella dei lettori in un Polo d’indipendenza conservano una quota di blocco del 33%. E lo fanno proprio grazie ad una donazione di Pierre Bergé, uno dei nuovi proprietari: 10 milioni di euro a fondo perduto. Non proprio noccioline. Secondo gli accordi i giornalisti non avranno diritto di veto sul presidente del direttorio, vertice del management, la cui nomina spetta al consiglio di sorveglianza controllato da BNP. Ma  potranno pronunciarsi sul direttore del quotidiano. Fino ad oggi a Le Monde i due ruoli, uno amministrativo e l’altro editoriale, erano ricoperti dalla stessa persona, da ultimo Eric Fottorino. Da subito la nuova proprietà esprime l’intenzione di separarli.

Ma chi sono Bergé, Niel e Pigasse? O meglio, visto che nel 2012 la Francia vota: da che parte (politica) porteranno Le Monde? A smorzare le speculazioni prova la stessa redazione che il 3 novembre, il giorno dopo l’insediamento di BNP, ne riporta una dettagliata biografia. Vita, morte, miracoli e frequentazioni dei proprietari nel paginone centrale del quotidiano: un bell’esempio di trasparenza, dunque di indipendenza. Dei movimenti nell’azionariato del Corriere, noi Italiani leggiamo al massimo in qualche trafiletto seminascosto.

Yves Saint Laurent e Pierre Bergé nel 1983. I due hanno stipulato un Pacs nel 2008, poco prima della morte dello stilista

Pierre Bergé è il più anziano, classe 1930. Un pezzo di storia francese, gran parte fuori dagli schemi: in gioventù anarchico e pacifista, per quasi 50 anni compagno dello stilista Yves Saint-Laurent, di cui fonda e porta al successo la scuola di haute couture. Uomo di sinistra, partecipa attivamente al dibattito politico. Nel 1988 appoggia la campagna presidenziale di Mitterand, di cui è grande amico, fondando la rivista Globe. Lì conosce il filosofo Bernard Henri-Levy, oggi uno dei suoi uomini nel consiglio di sorveglianza di Le Monde. Dal 1995 è editore – sempre in perdita – di Têtu, prima rivista omosessuale francese, poi entra nei capitali di Libération e l’Humanité. Ostile alla “nuova sinistra”, oggi incarnata da Dominique Strauss-Kahn, nel 2007 sostiene Segolène Royal, per cui ancora paga l’affitto del quartier generale parigino, a patto però che lei non si ricandidi alle prossime elezioni. Infine, come molti milionari francesi, Bergé è un mecenate. Due anni fa ha venduto la collezione di opere d’arte, sua e di Yves Saint-Laurent, ricavandone 300 milioni di euro: parte li ha destinati ad una fondazione intitolata allo stilista scomparso, parte alla ricerca medica. Soprattutto, dei milioni investiti nel progetto Le Monde, dieci li ha regalati al Polo d’indipendenza, affinché la redazione conservasse la sua minoranza di controllo.

Il 14 dicembre scorso Xavie Niel ha presentato il nuovo Freebox. In (quasi) perfetto stile Steve Jobs

Xavier Niel è di un’altra generazione. 43 anni, tecnico informatico e imprenditore; un hacker, da giovane per professione, ancora oggi per mentalità. Pioniere del web in Francia, è uno dei pochi europei all’altezza dei big della Silicon Valley, come testimonia l’amicizia con il fondatore di Google Lerry Page. Merito della sua società di telecomunicazioni, Free, nata nel 1999 ed esplosa tre anni dopo con il Freebox, un pacchetto di internet, pay-tv e telefono, offerto ad un prezzo concorrenziale per intaccare l’egemonia di France Télécom. Missione compiuta: oggi Free è il terzo internet provider francese e nel 2009 ha ottenuto la licenza per operare nel campo della telefonia mobile. Così, nonostante una condanna a due anni per abuso di beni societari – relativa ad un’altra azienda di cui è azionista –, Niel si consola con i numeri del suo impero: Iliad, casa madre di Free, vale 4,5 miliardi di euro e lui, che ne detiene il 64%, è tra i dodici uomini più ricchi del Paese. Di questi solo due non hanno ereditato la propria fortuna, uno è lui. Non male, visto che ancora all’inizio degli anni ’90 si guadagnava da vivere gestendo una catena di locali a luci rosse. Immancabile una fondazione, con la quale combatte per la libertà della rete e l’abbattimento del digital divide. Parte dei suoi capitali li ha di recente investiti nell’informazione online, in siti come Mediapart e Rue89.

Una copertina del settimanale Les Inrockuptibles, fondato nel 1986

Di successo, ma meno ricco, è il terzo investitore, l’unico che rischia effettivamente qualcosa nell’operazione. Mathieu Pigasse, 42 anni, figlio di giornalista, direttore generale delegato di Lazard Paris, colosso dell’investment banking francese. Una passione per il rock, che (dicono) ascolta ancora a tutto volume chiuso a chiave in ufficio. Sulle note dei Clash, suo gruppo preferito, segue il tipico cursus honorum dei funzionari francesi: Science Po e poi Ena, l’Ecole nationale d’administration. Tanto basta per entrare nel gabinetto del ministero dell’Economia, con Fabius e Strauss-Kahn, di cui in breve diventa consigliere e intimo amico. Nel 2002 il passaggio in Lazard dove si impone come esperto di debiti sovrani (Argentina, Iraq e poi Grecia) e cura una serie di fusioni, come Suez – Gaz de France, e acquisizioni, tra cui quella di Libération. Nel 2009 corona la sua passione per la musica acquistando la rivista Les Inrockuptibles, equivalente transalpino di Rolling Stone.

Storie affascinanti, quelle di BNP. Tre uomini accomunati da uno spirito progressista, ma con sfumature diverse: il socialismo più tradizionale di Bergé, quello più liberale di Pigasse, l’apoliticità 2.0 di Niel. Difficile capire quale sarà la risultante di queste forze. E d’altra parte, chi ha detto che la politica sarà decisiva nelle scelte della nuova proprietà? Le prime decisioni hanno infatti una logica tutta imprenditoriale. E provocano un terremoto.

(continua)

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La fin du “Monde”? (continua)

Dal 2 novembre scorso Pierre Bergé, Xavier Niel e Mathieu Pigasse – detti BNP – sono i nuovi azionisti di maggioranza di Le Monde. I giornalisti perdono così la proprietà del gruppo, garanzia della loro indipendenza. Nonostante lo shock culturale, l’accoglienza che riservano a BNP è conciliante. Addirittura euforica nel caso di Eric Fottorino, direttore e amministratore delegato del quotidiano, che il 4 novembre dà annuncio ai lettori dell’avvenuta rivoluzione. Nel suo articolo traccia un bilancio negativo degli ultimi dieci anni di gestione societaria – quella del suo predecessore Colombani – e quanto al calo delle vendite non risparmia critiche alla redazione, rea di aver «preso i propri eccessi per un’espressione di indipendenza, mentre non erano che insignificanza». Nella colonna a fianco, proprio una lettera della società dei redattori (Sdr). Che si dice pronta ad un rinnovamento, definisce il passaggio di mano «inevitabile», visti i bilanci, e ricorda le sue conquiste: aver conservato una quota di controllo (il 33%) e fatto sottoscrivere a BNP un manifesto etico e deontologico, che avrà valore statutario.

 

Eric Fottorino (50), giornalista e scrittore. Direttore di Le Monde dal 2007, l'anno successivo diventa anche presidente del direttorio, cioè vertice esecutivo dell'azienda

Stessa data, stessa pagina, anche un messaggio dei nuovi proprietari. Il titolo è eloquente: Monde nouveau, nouveau “Monde”. I tre azionisti si impegnano a preservare l’autonomia editoriale del giornale, ma affermano anche che l’«indipendenza economica» ne è condizione necessaria e che il loro obiettivo è di «rinnovare con la redditività». Parlano della necessità di investimenti freschi, dell’importanza del web, di ritmi di lavoro diversi e di un nuovo patto sociale con il personale, che invitano ad una «mobilitazione senza precedenti».

Michael Boukobza (32), il “Bazooka” chiamato a raddrizzare i conti del quotidiano

Fuor di retorica, un’esortazione a stringere i denti. La priorità è infatti un drastico ed immediato taglio delle spese che riporti già dal 2011 il bilancio in pareggio. Per realizzarlo i tre si affidano ad un cost-killer esterno, il trentaduenne Michael Boukobza, enfant prodige della finanza francese. Un uomo di fiducia di Xavier Niel, suo braccio destro a Free dal 2000 al 2007. L’incarico non è retribuito: Boukobza lo accetta, dicono le voci, per pura amicizia nei confronti del suo vecchio capo. La decisione con cui vi si dedica lo rende in pochi giorni spauracchio della redazione e gli vale l’eloquente soprannome di “Bazooka”. Finiscono nel suo mirino tutte le voci di spesa, a cominciare dai contratti con i fornitori. Ma a creare più malumore sono i tagli ai privilegi dei giornalisti, finora i più coccolati di Francia. Primo: meno auto di servizio. Ce n’erano circa 40 a Le Monde, molte con conducente. Rimarranno in garage. Secondo: maggiore controllo sulle note spese. D’ora in poi i redattori dovranno comunicare i nomi delle persone con cui pranzano. Per spostarsi a Parigi useranno i servizi pubblici: niente più taxi durante il giorno, salvo quelli per gli aeroporti. E ancora, i soggiorni in hotel superiori alle due notti dovranno essere approvati dall’ufficio contabile, non solo dal capo sevizio. Misura, quest’ultima, percepita come un’intrusione nell’autonomia editoriale, visto che potrebbe limitare le missioni degli inviati. Infine, sforbiciate anche per la dirigenza: l’ufficio di Fottorino è troppo spazioso, lo dovrà condividere con il suo vice, David Guiraud.

Sacrifici necessari, considerata la situazione finanziaria del gruppo. Ciò che irrita il vecchio esecutivo è piuttosto il metodo di BNP. Che preferiscono chiamare un consulente esterno come Boukobza, anziché lavorare con il management in carica, come promesso al momento dell’insediamento. Martedì 7 dicembre Fottorino manda una lettera a Louis Dreyfus, consigliere “in quota” Pigasse, esprimendo tutto il suo risentimento per il «tradimento» dei nuovi proprietari, in favore dei quali aveva osato sfidare la volontà di Sarkozy. Si definisce «vittima di una persecuzione morale» e ipotizza che l’obiettivo di BNP sia spingere lui e Guiraud alle dimissioni, in modo da liberarsene senza dover loro pagare alcuna indennità di licenziamento.

La lettera è inviata per conoscenza a tutti gli azionisti del gruppo ed è subito ripresa dai maggiori organi di informazione francesi. È la fine dell’idillio. Il 15 dicembre si riunisce per la prima volta il nuovo comitato di sorveglianza di Le Monde SA e sotto la regia di BNP attua un vero e proprio colpo di mano. L’obiettivo è rivoluzionare il management dell’azienda, ma il punto non è all’ordine del giorno. Louis Schweitzer, presidente del comitato dal 2007, dà le dimissioni, dichiarando di «non approvare i metodi utilizzati». Gli succede ipso facto Pierre Bergé mentre Gilles van Kote, presidente della società dei redattori, è nominato vice-presidente. Il comitato prende quindi atto delle dimissioni del direttore generale Guiraud, e vista la «divergenza di vedute con il direttorio» rimuove Fottorino dalla presidenza, sostituendolo con Louis Dreyfus. Un uomo di stampa, ex direttore di Libération e del Nouvel Observateur. Ma soprattutto stretto collaboratore di Pigasse, del cui settimanale, Les Inrockuptibles, è caporedattore.

A non essere chiara in questo episodio “burrascoso”, come qualche commentatore l’ha definito, è la posizione dei giornalisti. I quali hanno formalmente condannato l’operato dei nuovi proprietari, ma non con la decisione che sarebbe stato lecito attendersi. I consiglieri del Polo d’indipendenza non hanno preso parte alla votazione per la destituzione di Fottorino, non essendo questa prevista nell’ordine del giorno. Inoltre hanno emesso un comunicato, chiedendo che «simili procedure non vengano più applicate in futuro». Nella stessa occasione però Gilles van Kote, espressione dei redattori, ha accettato la vice-presidenza del consiglio di sorveglianza.  Rassegnazione per un’indipendenza ormai persa o semplice realismo? Non bisogna dimenticare che è solo grazie ai 10 milioni donati loro da Pierre Bergé che i giornalisti hanno potuto conservare la loro partecipazione azionaria nel gruppo.

Il grande sconfitto in questa vicenda è dunque Fottorino. Rimane per il momento direttore del quotidiano, ma i suoi

Sylvie Kauffmann (56), direttrice di redazione a Le Monde, è stata corrispondente dagli Stati Uniti e dall’Asia

giorni sono contati. A partire da lunedì 10 gennaio un comitato di selezione ristretto, composto da Bergé, Van Kote e Dreyfus,  organizzerà una serie di incontri per trovare il suo successore. Intervistato da France Culture, Pierre Bergé ne ha tracciato il profilo ideale: un giornalista indipendente, di preferenza quarantenne, attento alla politica internazionale, conoscitore di internet e delle nuove tecnologie. Al momento le candidature pervenute sono otto. Cinque interne: Sylvie Kauffmann, attuale direttrice della redazione, e i giornalisti Arnaud Leparmentier, Rémy Ourdan, Olivier Biffaud e Jean-Michel Dumay. Una “di famiglia”: Claude Leblanc, redattore capo del Courrier International, parte del gruppo Le Monde. E tre esterne, su cui per volontà degli interessati viene mantenuto il riservo. Sembra tramontata quella di Christophe Barbier: l’attuale direttore di redazione del newsmagazine L’Express, che le prime indiscrezioni avevano dato in corsa, ha smentito il suo interessamento. Il nome definitivo sarà indicato verso fine gennaio. Passerà quindi al vaglio dei redattori, che lo dovranno approvare con una maggioranza del 60%. Anche per questo non va esclusa l’ipotesi di un ticket, che associ un giornalista del quotidiano, per assicurare la continuità, ad un esterno, meglio se quarantenne, capace di innovare. In ogni caso la designazione sarà un momento decisivo per verificare lo stato delle relazioni tra proprietà e redazione, e fornirà una chiave di lettura più chiara su quanto successo in questi mesi.

Portata a termine la rivoluzione societaria, il consiglio di sorveglianza del 15 dicembre ha anche esaminato il budget  2011. «Una tappa cruciale», secondo i nuovi proprietari, questa si all’ordine del giorno. Il 2010 dovrebbe chiudersi con un passivo contenuto a circa 3,6 milioni di euro, l’obiettivo è riacciuffare il pareggio già dall’anno prossimo. Grazie all’aumento di 10 centesimi del prezzo per copia, portato a 1,50 euro, e ai tagli alle spese firmati Bazooka. Quindi sarà il momento di investire. BNP hanno dichiarato che «i fondi saranno concentrati sui progetti decisivi per lo sviluppo del gruppo». Quali siano, ancora non è chiaro, ma se ne saprà di più nei primi giorni di gennaio, quando il piano industriale sarà presentato ai dipendenti. Le questioni aperte sono diverse. Le Monde Imprimerie, stamperia del gruppo, fortemente indebitata e con un parco macchine molto vecchio. La distribuzione del quotidiano, che esce nelle edicole parigine verso le 16, ma arriva nel resto della Francia solo la mattina dopo, con notizie ormai vecchie. E poi l’organizzazione delle pagine, modificata da Fottorino e poco amata dai lettori. Se ne discuterà con il nuovo direttore.

Infine c’è internet, il tema su cui più di ogni altro gli editori, Le Monde SA come gli altri, giocano il proprio futuro. Qualche novità è già trapelata: si lavorerà all’integrazione tra i formati, facendo convergere lemonde.fr sotto l’autorità della redazione. Certo, bisognerà convincere i giornalisti della carta a scrivere online: non è facile, De Bortoli ne sa qualcosa. Anche per questo il nuovo direttore dovrà avere familiarità con i nuovi media. Qualche consiglio glielo darà certo Xavier Niel. Con la sua conoscenza della rete, il patron di Free potrebbe portare la testata all’avanguardia nella valorizzazione (e monetizzazione) del proprio sito. Un ambito in cui Le Monde ha adottato finora una strategia incerta. Lasciando all’inizio accesso gratuito a tutti gli articoli, salvo poi fare parziale marcia indietro. Ma non aderendo, unico tra i maggiori quotidiani e magazine francesi, ed e-Presse Premimum, un innovativo progetto di edicola online in cui le testate dovrebbero vendere in comune i propri contenuti.

L’arrivo di una logica manageriale, in una società che a lungo se n’è considerata esentata, è una novità positiva: «Non è perché siamo di sinistra che non dobbiamo occuparci di conti», ha detto Pierre Bergé nella già citata intervista a France Culture. Bergé, Niel e Pigasse  sono imprenditori e fanno bene a ricordare che la solidità economica è condizione necessaria per una reale indipendenza. Ma necessario non significa ancora sufficiente. Sapranno salvaguardare l’autonomia della redazione, caratteristica che ha reso Le Monde una voce così autorevole? E i tagli alle spese non faranno abbassare la qualità del giornale? On va voir, si vedrà.

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